Amare nel matrimonio: oltre la felicità
Il vero significato è nell'amore che viene donato

Di recente ho ricevuto una grande lezione, forse la più importante, riguardo al matrimonio.
Stavo parlando con una persona sposata con un uomo affetto dalla sindrome di Asperger. Diagnosi dopo il matrimonio.
Mi ha parlato della difficoltà di essere sposata con una persona che non è in grado di dimostrare affetto, né di percepire il bisogno degli altri di riceverlo.
Quando gli ho chiesto se stava ricevendo supporto psicologico, mi ha risposto di sì, ma che non sembrava molto efficace. Lo psicologo voleva orientarlo secondo l’individualismo imperante: “Ma se non riesci a essere felice, perché vuoi restare sposato?”
La risposta di questa madre è stata incontestabile: “Perché lo amo”.
Lo scopo del matrimonio è l’amore.
Il fine della vita è amare.
La felicità è quella chimera che offusca la bussola della nostra vita.
La nostra natura umana ci impone i due bisogni più basilari, più ancora del mangiare e del bere (non è questo il momento di illustrare questo concetto, ma ci sono molti esempi che lo dimostrano): sentirci amati e amare.
I figli non sempre ci rendono felici, ma ci offrono sempre l’opportunità di sviluppare la nostra capacità di amare. Ed è un peccato che tanti genitori si lascino sfuggire questa opportunità.
Anche se i bambini non sempre ci rendono felici, non li rinneghiamo (a meno che non siamo squilibrati emotivamente o psicologicamente).
Ogni volta che penso alle dimostrazioni d’amore, penso a José María, che, essendo figlio unico – suo fratello era morto in giovane età – e avendo la madre costretta per molti anni su una sedia a rotelle e poi a letto a causa dell’Alzheimer, si dedicò personalmente a darle tutte le cure necessarie, arrivando persino a dormire con lei durante quel periodo, invece di assumere un’infermiera (avendo i mezzi economici per farlo). Se gli avessimo chiesto allora: “Sei felice di prenderti cura di tua madre?”, credo che sarebbe stato perfettamente comprensibile se ci avesse risposto con uno sfogo.
Non si tratta di “essere felice”, ma di amare oppure no, e di come e in che misura mi dono.
Uno degli esempi migliori dell’idealizzazione della felicità si trova nella ripetuta Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America: “Riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili; che tra questi diritti vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.
Non vi è alcun riferimento al bisogno inalienabile di essere amati e di amare, ed esprime come un diritto la ricerca di quell’emozione che ti concentra su te stesso – perché il sentimento della felicità è individuale – e ti fa dimenticare l’altro, che può soddisfare il suo bisogno più elementare solo essendo amato da te, e che ti permette di raggiungere il senso della tua vita, che è amare.
Troppe persone si sposano con il desiderio di essere felici, ma non si rendono pienamente conto che il successo della loro unione dipende dalla loro decisione di amare. Così, non appena smettono di sentirsi felici (ed essendo un’emozione, la felicità è effimera) considerano che il matrimonio ha cessato di realizzare il suo obiettivo e, pertanto, hanno il “diritto inalienabile” di cercare il loro “tesoro”, anche se la ricerca della loro felicità, poiché va contro il loro bisogno di amare, va contro la loro essenza e, naturalmente, lo fanno a scapito del bisogno primario del coniuge e, senza dubbio, dei loro figli, di sentirsi amati.
Finché gli esseri umani continueranno a dare priorità alla felicità e ad abbandonare il loro bisogno di amore, i divorzi non smetteranno di aumentare, né diminuiranno le vendite di farmaci ansiolitici e antidepressivi.
Amare è sinonimo di resa, e per arrendersi è necessario comprendere che la mia felicità è assolutamente secondaria.
È vero che sentirsi amati è necessario tanto quanto amare. E più una persona è emotivamente immatura, più ha bisogno di attenzione, confondendola con amore, e quindi è facile che cerchi, a volte fino alla sottomissione, segni di riconoscimento che non sono altro che miseri surrogati del vero affetto.
Il bisogno di ricevere “mi piace” o di avere molti follower sui loro social network, il bisogno che tu ascolti tutto quello che hanno da dire su di loro, il bisogno che tu mostri ammirazione per i loro successi o per i loro beni, il bisogno di poter provare un po’ di invidia, … sono tutti segnali che sono diventati dipendenti, nella fase emotiva tra i due e i tre anni, dal loro insistente “sguardo mamma, sguardo mamma, sguardo mamma”.
La convinzione che “il mio tempo”, “il mio lavoro”, “il mio tempo libero”, “i miei obiettivi”, “i miei desideri”, “il mio riposo”, ecc. siano al di sopra dell’impegno che ho preso di amarti, cioè di donarmi a te, è un segno inequivocabile di una fissazione nella fase egocentrica tipica dei bambini molto piccoli.
L’immaturità emotiva spesso rende gli adulti molto esigenti con chi li circonda, pretendendo dagli altri dimostrazioni di affetto che loro stessi non sono in grado di dare.
Sigmund Freud disse: “Chi ama diventa umile. Chi ama, per così dire, rinuncia a una parte del proprio narcisismo”.
Piuttosto, vorrei sottolineare che se non ti umili, se non rinunci il più possibile al tuo narcisismo, la tua capacità di amare chiunque altro che te stesso è molto piccola, e non è difficile trovare persone che credono di amare così tanto perché pretendono di essere amate.
Al contrario, quando una persona è emotivamente matura, è in grado di percepire i bisogni degli altri e, quantomeno, di trovare un modo per cercare di soddisfarli.
E quando, come coppia sposata, concentriamo i nostri sforzi sull’amare il nostro coniuge, cioè sul rinunciare al nostro tempo, relegando i nostri desideri, perfino i nostri bisogni, alla soddisfazione dei desideri dell’altro, e smettiamo di cercare la nostra felicità, è allora che troviamo il senso del nostro vivere, la pienezza della vita, che potrebbe non portare un’emozione, la felicità, ma qualcosa di molto più grande, qualcosa di vicino all’infinito: la gioia e la pace di sapere per chi viviamo, perché viviamo: “Perché lo amo”.
Appendice
Cristo non è venuto sulla terra per essere felice. Se questo fosse stato il suo obiettivo, il suo fallimento sarebbe stato enorme.
Cristo è sceso sulla terra per amare, per donarsi a noi e per noi, e per insegnarci come amare: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Giovanni 13:34. E più di duemila anni dopo, continuiamo a vedere il suo successo in coloro che osservano veramente la Sua Parola.
Il problema è che insistiamo nell’“amare” a modo nostro, cercando la “felicità”, senza arrenderci e senza accettare la croce.
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