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Felipe Arizmendi

Voci

11 Giugno, 2025

5 min

Cardinale Felipe Arizmendi: Non corrompere il concetto di “popolo”

Il vero significato di "popolo", denunciando l'uso manipolativo del termine in ambito politico e sociale

Cardinale Felipe Arizmendi: Non corrompere il concetto di “popolo”

Il cardinale  Felipe Arizmendi, vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas e responsabile della Dottrina della fede presso la  Conferenza episcopale messicana (CEM), offre ai lettori di Exaudi il suo articolo settimanale.

FATTI

Sebbene l’87% degli elettori in Messico non abbia partecipato alle recenti elezioni per la magistratura, per esprimere la nostra insoddisfazione per la prassi del precedente mandato di sei anni, continuano a proclamare che è stato  il popolo  a eleggere i nuovi giudici e magistrati, che  il popolo  governa, che  tutto viene con il popolo e nulla senza il popolo,  e che  il popolo  decide…  E noi che abbiamo deciso di non votare, non siamo forse popolo? Non contiamo? La nostra astensione non è forse espressione della volontà della maggioranza del popolo? Il nostro silenzio al momento del voto non è forse una voce hai quattro venti? Invece di squalificare gli organismi internazionali che hanno criticato questo metodo di elezione della magistratura, dovremmo analizzare con distacco l’espressione di un popolo che ha deciso di non votare, nonostante tanta propaganda con cui ha cercato di convincerci a farlo. La nostra astensione è stata un’espressione in gran parte popolare.

Nella mia città, con 1.200 aventi diritto al voto, solo 60 si sono presentati alle urne: solo il 5%. E quelli che hanno votato, la maggior parte erano anziani, che il regime ha vincolato con la minaccia che, se non lo avessero fatto, avrebbero perso il sostegno dei programmi sociali. Alcuni si sono recati al seggio elettorale per rovinare il loro voto, per lo stesso motivo. Vengono ascoltati solo gli anziani che applaudono ciò che il governo esige? Sono forse loro  le persone  di cui si vantano così tanto? E noi, quelli di noi che non siamo vincolati dai programmi sociali del governo, non siamo forse il popolo?

Esistono diversi modi di tenere conto del popolo. Esiste una forma di democrazia, che è il potere del popolo, che è rappresentativa, quando, ad esempio, i governanti o i legislatori vengono eletti, legittimati dal voto popolare. Esistono altre democrazie più partecipative, come quando si tiene un  referendum  o un plebiscito legalmente autorizzato. Non si tratta di alzata di mano in una manifestazione dei propri seguaci. Nelle comunità indigene che preservano la ricchezza della propria cultura, nessuno fa campagna elettorale; piuttosto, il popolo, in assemblea aperta, elegge chi ritiene più idoneo a ricoprire le varie posizioni, anche in caso di resistenza.

Nella nostra Chiesa, che non è democratica, esiste un modo per la partecipazione del popolo, ad esempio nei consigli pastorali, prescritti dal diritto canonico, e in tante altre forme di partecipazione. L’elezione dei vescovi non avviene per voto popolare; ma esiste un sistema di consultazioni per ascoltare i vari membri del Popolo di Dio. Si svolge in modo molto segreto ma molto efficace. Non viene decisa a maggioranza in una riunione, il che può essere soggetto a molteplici manipolazioni. Inoltre, se qualcuno si candida per diventare vescovo, per questo stesso fatto è già squalificato. Il recente Sinodo sulla sinodalità chiede una maggiore consultazione del popolo per questa elezione, ma la decisione non dipende da un voto a maggioranza. Il Papa, dopo aver analizzato in preghiera le opinioni e le proposte che gli giungono da tutto il mondo, prende la decisione finale. Gesù Cristo non ci ha istituiti come una democrazia, ma come Popolo di Dio con partecipazione e comunione. All’elezione del Papa, partecipiamo tutti, non esprimendo un voto, ma pregando lo Spirito Santo affinché illumini i cardinali elettori. E questa nostra preghiera è stata ascoltata; tutti abbiamo partecipato alla sua elezione.

FULMINE

Papa Francesco, nella sua enciclica  Fratelli Tutti,  afferma:  «Esistono leader popolari capaci di interpretare i sentimenti di un popolo, le sue dinamiche culturali e le grandi tendenze di una società. Il servizio che svolgono, unendo e guidando, può essere la base di un progetto duraturo di trasformazione e crescita, che implica anche la capacità di cedere il passo agli altri per il bene comune. Ma conduce a un populismo malsano quando si trasforma nella capacità di qualcuno di accattivarsi per strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualsiasi segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte, si cerca di guadagnare popolarità esacerbando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando si trasforma, in forme crude o sottili, in una sottomissione delle istituzioni e dello Stato di diritto».

I gruppi populisti chiusi distorcono la parola “popolo”, poiché non parlano realmente di un vero popolo. In effetti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è un popolo permanentemente aperto a nuove sintesi che incorporino coloro che sono diversi. Lo fa non negando se stesso, ma piuttosto con la volontà di essere mobilitato, sfidato, ampliato e arricchito dagli altri, e in questo modo può evolvere.

Un’altra espressione del degrado della leadership popolare è l’immediatezza. Le persone rispondono alle richieste popolari per ottenere voti o approvazione, ma senza portare avanti l’arduo e costante compito di generare risorse per le persone per il loro stesso sviluppo, affinché possano sostenere la propria vita con il loro sforzo e la loro creatività. In questa linea, ho affermato chiaramente di essere ben lungi dal proporre un populismo irresponsabile. Da un lato, il superamento delle disuguaglianze presuppone lo sviluppo economico, sfruttando le potenzialità di ogni territorio e garantendo così un’equità sostenibile. Dall’altro, i piani di assistenza, che affrontano determinate emergenze, dovrebbero essere considerati solo risposte temporanee  (nn. 159-161).

AZIONI

Siamo tutti persone, come società e come Chiesa. Non aspettiamoci che il governo civile o ecclesiastico faccia e decida tutto. Contribuiamo con le nostre parole e le nostre azioni, perché siamo membra vive di un corpo vivo.

Felipe Arizmendi

Nacido en Chiltepec el 1 de mayo de 1940. Estudió Humanidades y Filosofía en el Seminario de Toluca, de 1952 a 1959. Cursó la Teología en la Universidad Pontificia de Salamanca, España, de 1959 a 1963, obteniendo la licenciatura en Teología Dogmática. Por su cuenta, se especializó en Liturgia. Fue ordenado sacerdote el 25 de agosto de 1963 en Toluca. Sirvió como Vicario Parroquial en tres parroquias por tres años y medio y fue párroco de una comunidad indígena otomí, de 1967 a 1970. Fue Director Espiritual del Seminario de Toluca por diez años, y Rector del mismo de 1981 a 1991. El 7 de marzo de 1991, fue ordenado obispo de la diócesis de Tapachula, donde estuvo hasta el 30 de abril del año 2000. El 1 de mayo del 2000, inició su ministerio episcopal como XLVI obispo de la diócesis de San Cristóbal de las Casas, Chiapas, una de las diócesis más antiguas de México, erigida en 1539; allí sirvió por casi 18 años. Ha ocupado diversos cargos en la Conferencia del Episcopado Mexicano y en el CELAM. El 3 de noviembre de 2017, el Papa Francisco le aceptó, por edad, su renuncia al servicio episcopal en esta diócesis, que entregó a su sucesor el 3 de enero de 2018. Desde entonces, reside en la ciudad de Toluca. Desde 1979, escribe artículos de actualidad en varios medios religiosos y civiles. Es autor de varias publicaciones.