La bellezza che non puoi vedere
Ciò che non si vede con gli occhi, ma con il cuore

Leggendo il Vangelo di ieri, 12 marzo (Lc 11,29-32), mi è venuta in mente un’idea su cui riflettevo da tempo e su cui volevo scrivere.
So che non scrivo in modo virtuoso ed è un dato di fatto che ho difficoltà a farmi conoscere quando devo far leggere ad altri. Una cosa è annotare le piccole ispirazioni della giornata o un’esperienza sul proprio diario personale, un’altra è cedere e lasciare la porta aperta anche a una sola persona che voglia leggerlo.
In questo brano Gesù parla di segni. Come gli chiesero dei segni per credere e come questi avvenivano davanti a quelle persone, ma loro non riuscivano a vederli. E il segno era Lui stesso, ma loro non lo videro.
Ci ho pensato e credo che quello che accadrebbe loro è che non sarebbero in grado di farlo perché sarebbero presi dalle loro cose, dalle loro abitudini, dai loro rumori quotidiani, in breve, dai loro schemi mentali. Guardavano Gesù a modo loro ed erano insensibili alla meraviglia di ciò che Egli portava loro.
E mi basta guardare me stesso per vedere come chiudo la possibilità di novità nella mia routine e meravigliarmi di ciò che la realtà ha da dirmi ogni giorno quando mi metto in modalità multitasking o super-efficiente.
Efficiente, efficace, utile, produttivo…
Mi sono visto così riflesso in quelle persone, e quante volte guardo solo con lo sguardo naturale dei sensi del corpo, tralasciando il soprannaturale. Ciò che ti apre a qualcosa di più di ciò che la semplice realtà materiale ti mostra, e che richiede tempo, silenzio e la volontà di guardare lentamente per non limitarsi a vedere.
E ritorno al significato di utilità, redditività, efficacia, produttività… È possibile essere produttivi se smetto di fare così tante cose nella mia giornata? Smetto di essere una persona efficiente se rallento, se lascio che le cose mi segnino e cerco di lasciare il mio segno in loro? E poi mi rendo conto che forse dovrei riconsiderare il significato delle parole efficienza e utilità nel mondo in cui vivo e lavoro.
Ho ben chiaro cosa il mondo sta cercando di impormi. Performance, successo, misurazione quantitativa… ma è questo vivere appieno? E mi fermo. E resto in silenzio e mi guardo intorno per poter rispondere a me stesso, non partendo dalla teoria, non da ciò che dicono i guru o gli “esperti” della felicità, ma guardando alla mia esperienza. Per contemplare la mia vita e il mio cammino. Per verificare nella mia piccola realtà. Nel mio piccolo appezzamento di terreno. Nel mio cuore, inteso come il nucleo della mia persona.
E metto da parte per un momento tutti gli impatti che ricevo. Quelli che cerco e quelli che mi dà l’algoritmo a cui piaccio così tanto.
E alzo gli occhi al cielo… e mi rendo conto che la produttività non riguarda le cose materiali. Che la mia efficacia non sta in ciò che accumulo ma in ciò che do. Che sono più efficiente quando mi dedico di più alle persone che incontro. Il mio successo risiede nelle volte in cui sono riuscito a superare i miei pregiudizi e a lasciarmi stimolare e toccare da qualcosa o qualcuno. Che la mia utilità non dipende dalle opinioni altrui, ma risiede nella mia libertà di essere, potendo lasciare spazio nella mia vita ad azioni considerate inutili se le giudico attraverso il filtro della performance.
E mi rendo conto che forse la parola giusta non è efficacia o efficienza. Non produttività o utilità. Altrimenti porta frutto.
“Dare” significa donarsi, abbandonarsi e dare frutto, che è il seme di altri frutti futuri. Un frutto che, quando muore, lascia un segno in chi resta qui per rifiorire. Un insieme di quelle cose che non si vedono con gli occhi del corpo, ma si vivono e si vedono con gli occhi del cuore.
Di quelle cose tremendamente belle, ma che hanno bisogno della tua apertura per diventare visibili.
E mentre pensavo a questo, ho visto i raggi del sole entrare dalla mia finestra dopo tanti giorni di pioggia e le sfumature di quel cielo che si presentavano davanti a me. Quanto è inaspettato e quanto è bello.
Bellezza… se ne parla oggi all’università. Che cos’è? Una persona cieca, che quindi non può vedere con gli occhi del corpo, può avere un’esperienza della bellezza? E mi sono chiesto se ci fosse bellezza intorno a me, nel mio piccolo metro quadrato di routine.
E decido di fermarmi. E guardo… e mi rendo conto di quanta bellezza mi circonda all’improvviso. Il sole, il cielo, la mia casa, il profumo del caffè che pervade la cucina, gli incontri che avverranno oggi, la mia bellissima mamma che mi aspetta per mangiare… mia madre… quanta bellezza c’è in lei e nella sua maternità. Nella sua cura, nella sua dedizione, nel suo sorriso, nelle sue rughe. In quei solchi sulla sua pelle che raccontano di una vita vissuta con tanto amore e sofferenza. E mi stupisco della bellezza che è invisibile agli occhi del mio viso, ma che risplende intensamente quando viene vista con gli occhi del cuore.
E ricordo il Vangelo di ieri e mi riprometto di contemplare la mia giornata aperto a tutte le cose belle che mi appariranno davanti, ma che hanno bisogno della mia attenzione e della mia presenza per potermi parlare. Ciò mi chiede di risvegliarmi alla meraviglia in altri modi e forme, per scoprire l’inaspettato e il dono della novità in ogni giorno.
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