La mano materna che salvò Giovanni Paolo II

40 anni fa l’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro

Giovanni Paolo II
Giovanni Paolo II dopo l'attentato ©️ polskifr.fr / Exaudi Staff

In 27 anni indimenticabili di pontificato, Giovanni Paolo II ha battuto un’infinità di record, quanto a numeri di viaggi, udienze, incontri e via dicendo. Ma c’è un altro record che papa Wojtyla, potendo, forse si sarebbe risparmiato; le quindici aggressioni subite, più o meno gravi, molte quasi ignote, ancora oggi, ai fedeli e ai giornalisti.

L’episodio più grave e famoso rimane l’attentato del 13 maggio 1981 in piazza san Pietro, durante il giro per salutare da vicino la gente, a bordo dell’auto scoperta, prima dell’udienza generale. Alle 5.17 del pomeriggio il ventitreenne turco Alì Agca, appostato tra la folla, sparò al Papa due colpi di pistola, da una distanza di appena 3 o 4 metri. Uno dei due proiettili ferì gravemente all’addome Giovanni Paolo II, causandogli gravissime lesioni all’intestino.

La corsa per salvare il Pontefice

Il Papa ferito e sanguinante fu portato in ambulanza all’ospedale Gemelli di Roma in una corsa contro il tempo. Le sue funzioni vitali si andavano affievolendo minuto dopo minuto. Nella sala operatoria dell’ospedale, il segretario personale Stanislaw Dziwisz, futuro arcivescovo di Cracovia, su consiglio dei medici amministrò piangendo al Pontefice il sacramento dell’estrema unzione.

I chirurghi del Gemelli scoprirono di lì a poco con sollievo che la pallottola di Alì Agca, pur avendo devastato vari organi, aveva mancato l’aorta per pochi millimetri. In caso contrario, il Papa sarebbe morto in pochi minuti. Passata la mezzanotte, il mondo intero apprese dal bollettino diramato dal Gemelli la notizia tanto attesa: il Papa era salvo!

Il “mistero” Alì Agca

Intanto l’attentatore era stato subito fermato dalla polizia, con l’aiuto di due suore: una, rimasta ignota, che strattonò il braccio di Alì Agca impedendogli di sparare altri colpi; l’altra, suor Letizia Giudici, francescana, il cui intervento fu decisivo per impedire che Agca si facesse largo tra la folla e fuggisse. Un ritratto del “personaggio” Alì Agca è difficile ancor oggi da delineare. Certo è che era un killer esperto, e lui stesso rimase sorpreso nel non essere riuscito ad uccidere il Papa (anche se una volta disse che non era questo il suo intento). Raccontò anche che non aveva agito da solo, ma col supporto di mandanti e fiancheggiatori, di cui nulla di chiaro si sa ancora oggi, 40 anni dopo. E la sua collaborazione nel dipanare il groviglio delle indagini si è sempre rivelata contraddittoria e quindi inutile.

Il perdono

Papa Giovanni Paolo II, pur non sapendone ancora il nome, già dentro l’ambulanza verso il Gemelli ebbe parole di perdono per lui. E il 27 dicembre 1983 gli fece addirittura visita al carcere di Rebibbia, a Roma, per un fitto colloquio di 10 minuti, faccia a faccia, di cui il Papa non riferì ad altri quasi nulla.

La mano di Maria

Scampato il pericolo della morte, le radiografie dei medici rivelarono che il proiettile era entrato nel corpo del Papa accanto all’ombelico e uscito dalla schiena; non aveva seguito una traiettoria lineare, schivando tutti gli organi vitali. Fu così che meditando sull’accaduto, nei giorni di ricovero al Gemelli, Giovanni Paolo II maturò presto la convinzione che “una mano ha sparato, un’altra ha deviato la traiettoria”. E la mano che lo salvò non poteva che essere quella della Vergine di Fatima, festeggiata proprio quel giorno, il 13 maggio, la data della prima delle sei apparizioni – nell’ormai lontano 1917– a Francesco, Giacinta e Lucia, tre pastorelli della località del Portogallo divenuta poi uno dei più frequentati santuari mariani del mondo.

Il secondo ricovero

Le cure del papa ferito e debilitato richiesero più tempo del previsto, fino al 3 giugno, quando Karol Wojtyla lasciò l’ospedale. Ma presto si rese necessario un secondo ricovero, molto più lungo del primo, fino al 14 agosto, per curare un’infezione da Citomegalovirus contratta durante l’operazione disperata poche ore dopo l’attentato.

Fu così ad inizio agosto del 1981 che, riflettendo sui fatti del 13 maggio, papa Wojtyla chiese al segretario don Stanislao di leggere il testo del terzo segreto di Fatima, scritto nel ’44 da Lucia, l’unica veggente dei tre ancora in vita, e letto fino a quel momento solo dai suoi predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI.

Pellegrino a Fatima

Un anno dopo, il 13 maggio 1982, Giovanni Paolo II volò in Portogallo per farsi pellegrino a Fatima e quindi ringraziare di persona la Madonna che l’anno prima gli aveva salvato la vita. Pochi ricordano che il giorno prima, la sera del 12 maggio, anche un sacerdote spagnolo, Juan Maria Fernandez y Krohn, oppositore delle riforme del Concilio vaticano II, tentò di aggredire il Papa con un coltello, riuscendo anche a raggiungere al fianco Giovanni Paolo II con la lama. Ma quella volta la ferita, abbastanza lieve, non richiese cure immediate. I giornalisti al seguito invece ricordano ancora bene l’intensa preghiera del papa in silenzio, in diretta TV, di fronte alla statua della Vergine.

La consacrazione

Quella stessa statua fu portata poi a Roma nel 1984, per volontà di papa Wojtyla, per celebrare un solenne “atto di consacrazione del mondo” al cuore immacolato di Maria, come richiesto a Fatima dalla Vergine nella seconda parte del segreto. Nel frattempo, il proiettile che quasi uccise il Pontefice nel 1981 era stato consegnato al vescovo portoghese di Leiria-Fatima, che lo fece incastonare nella corona della statua, dove ancora oggi si trova.


Il Papa viaggiatore tornò ancora in quel santuario nel 91 e poi nel 2000, durante il giubileo. E quel terzo viaggio del pontificato a Fatima fu il più denso di significati e suggestioni. Nel 1981, durante il primo ricovero al Gemelli, il papa ricevette dalla Polonia la triste notizia della morte del cardinale polacco Stefan Wyszynski, arcivescovo di Varsavia e Primate di Polonia, amico fraterno di Karol Wojtyla, a cui aveva profetizzato, nel conclave che elesse Giovanni Paolo II: “Tu introdurrai la chiesa nel terzo millennio”. Parole che sicuramente tornarono spesso in mente a papa Wojtyla, in quel drammatico 1981 e poi anche celebrando il solenne giubileo del 2000.

Il terzo segreto

A Fatima, il 13 maggio 2000, Giovanni Paolo II non solo beatificò i pastorelli Giacinta e Francesco, morti in tenera età già poco dopo le apparizioni di Fatima. Il viaggio in Portogallo fu anche l’occasione per fare annunciare dal segretario di Stato cardinal Sodano, sulla spianata del santuario, che Giovanni Paolo II aveva deciso di rendere pubblica quella terza parte del segreto di Fatima da lui letta 19 anni prima, e su cui si erano moltiplicate nel corso dei decenni letture surreali e apocalittiche. La pubblicazione avvenne il 26 giugno 2000 in sala stampa vaticana, affollata di cronisti da tutto il mondo.

“La visione di Fatima”, era stato anticipato dal cardinal Sodano, “riguarda soprattutto la lotta dei sistemi atei contro la Chiesa e i cristiani e descrive l’immane sofferenza dei testimoni della fede dell’ultimo secolo del secondo millennio. È una interminabile Via Crucis guidata dai Papi del ventesimo secolo”.

La Chiesa martire

E’ quella terza parte del segreto quella che contiene la visione famosa del “vescovo vestito di bianco” che camminando tra rovine e cadaveri arriva in cima ad un’altura sormontata da una croce, e lì cade morto, trafitto da frecce e colpi di arma da fuoco, insieme a molti altri vescovi, sacerdoti, religiosi, uomini e donne che erano con lui. Questa visione, commentò di nuovo l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinale Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, richiama il martirio della Chiesa nel ‘900; il secolo delle guerre mondiali, dei totalitarismi, delle pulizie etniche, delle persecuzioni.

In quello scritto papa Wojtyla aveva visto da subito il segno della speciale protezione ricevuta da Dio, per intercessione della Madonna di Fatima, quando lui stesso rischiò la morte. “Fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte”, aveva affermato Giovanni Paolo II in un altro 13 maggio, nel 1994.

“La preghiera è più forte dei proiettili”

Il cardinale Ratzinger, il 26 giugno 2000, spiegò ancora: “Che qui una ‘mano materna’ abbia deviato la pallottola mortale, mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni”.

Il terzo segreto di Fatima, in definitiva, non conteneva nessun mistero, né rivelava nulla sul corso futuro della storia. “Ciò che rimane”, concluse Ratzinger, è “l’esortazione alla preghiera per la salvezza delle anime e nello stesso senso il richiamo alla penitenza e alla conversione”.

Suor Lucia morì nel 2005, accompagnata da voci ed illazioni su un presunto quarto segreto di Fatima mai rivelato. Dall’attentato al Papa del 13 maggio 1981 sono passati 40 anni, e i suoi retroscena rimangono tanti ed oscuri. Ma una certezza non abbandonò mai papa Wojtyla, come disse lui stesso ai fedeli riuniti in piazza san Pietro, al primo incontro di persona dopo i lunghi ricoveri in ospedale di quell’anno: “Potrei dimenticare che l’evento in piazza san Pietro (l’attentato, NDR) ha avuto luogo nel giorno e nell’ora nei quali, da più di 60 anni, si ricorda a Fatima, in Portogallo, la prima apparizione della madre di Cristo ai poveri pastorelli? In tutto ciò che mi è successo quel giorno ho avvertito una straordinaria protezione e premura materna. Essa si è dimostrata più forte del proiettile micidiale”.

In Piazza san Pietro, dal 2006, un anno dopo la scomparsa di Giovanni Paolo II, una lapide posta sul punto esatto dell’attentato fa memoria di questa storia.