“Se non avete qualcuno che vi aiuta a camminare, cadrete e farete rumore”

Dialogo del Santo Padre con i Seminaristi e i Sacerdoti che studiano a Roma

Vatican Media

Lunedì 24 ottobre il Santo Padre Francesco ha incontrato in Vaticano i Seminaristi e i Sacerdoti che studiano a Roma.

Pubblichiamo di seguito il dialogo del Santo Padre con i presenti all’Udienza:

Dialogo del Santo Padre con i Seminaristi e i Sacerdoti

Signori Cardinali, signori Vescovi, sacerdoti!

Prima di tutto, chiedo scusa per il ritardo: davvero chiedo scusa, ma il problema è che è stata una giornataccia, perché ci sono state le visite di due Presidenti della Repubblica… Perciò questo ritardo. È un momento nel quale non è facile aspettare perché lo stomaco a quest’ora comincia a farsi sentire… Andiamo avanti.

Quando sono entrato ho visto: questo è un monumento allo stato clericale! Perché siete davvero tanti, tanti preti insieme, è un piacere. Così incominciamo.

Domanda

Santo Padre, vorrei chiederLe un consiglio sulla direzione spirituale dei giovani sacerdoti. Per i preti è facile essere guide spirituali per i laici, le religiose e coloro che sono ancora in formazione. A mio avviso, invece, è difficile per i sacerdoti cercare una direzione spirituale da parte di altri confratelli. Come consiglierebbe ai presbiteri, soprattutto a quelli giovani, di cercare questo aiuto spirituale per la loro formazione? Grazie.

Papa Francesco

Prima di tutto vi ringrazio per l’interesse, avete fatto 205 domande! Se c’è tempo, ne faremo dieci, perché questo è un po’ troppo!

Grazie Dominique. Il problema della direzione spirituale – oggi si usa più un termine meno direttivo, “accompagnamento” spirituale, che mi piace -. È obbligatoria la direzione spirituale, l’accompagnamento spirituale? No, non è obbligatorio, ma se tu non hai qualcuno che ti aiuti a camminare, cadrai, e farai rumore. A volte è importante essere accompagnato da qualcuno che conosca la mia vita, e che non è necessario sia il confessore; a volte va, ma l’importante è che siano due ruoli distinti. Tu vai dal confessore perché ti perdoni i peccati e vai preparandoti sui peccati. Vai dal direttore spirituale per dirgli le cose che stanno succedendo nel tuo cuore, le mozioni spirituali, le gioie, le rabbie e cosa succede dentro di te. Se ti relazioni solo con il confessore e non con il direttore spirituale, non saprai crescere, sarà una cosa che non va. Se ti relazioni solo con un direttore spirituale, un accompagnatore, e non vai a confessare i tuoi peccati, questo pure non va. Sono due ruoli diversi, e nelle scuole di spiritualità, per esempio quella gesuitica, Sant’Ignazio dice che è meglio distinguerli, che uno sia il confessore e un altro il direttore spirituale. A volte è lo stesso ma sono due cose diverse, che forse fa una sola persona, ma due cose diverse.

Secondo. La direzione spirituale non è un carisma clericale, è un carisma battesimale. I preti che fanno direzione spirituale hanno il carisma non perché preti, ma perché laici, perché battezzati. So che ci sono alcuni della Curia, forse qualcuno di voi, che fanno direzione spirituale con una suora che è brava, che insegna alla Gregoriana, è brava e lei è la direttrice spirituale. Vai, non c’è problema, è una donna di saggezza spirituale che sa dirigere. Alcuni movimenti hanno forse un laico saggio, una laica saggia. Questo lo dico perché non è un carisma sacerdotale. Può essere un sacerdote, ma non è esclusivamente dei sacerdoti. E per essere direttore spirituale ci vuole un’unzione grande. Per questo, alla tua domanda, direi: prima di tutto essere sicuro che io devo essere accompagnato, sempre. Perché la persona che non è accompagnata nella vita genera “funghi” nell’anima, i funghi che poi ti molestano. Malattie, solitudini sporche, tante cose brutte. Ho bisogno di essere accompagnato. Chiarire le cose. Cercare le emozioni spirituali, che qualcuno mi aiuti a capirle, cosa vuole il Signore con questo, dov’è la tentazione… Ho trovato alcuni studenti di teologia che non sapevano distinguere una grazia da una tentazione; bisogna che qualcuno mi accompagni. E questo non è necessario farlo tutte le settimane, no, tu vai dal direttore spirituale una volta al mese, ogni due mesi, quando hai materia per conferire con lui o con lei. Ma queste cose che siano chiare.

Come fare per trovare uno? State attenti, tu vedi qualcuno che ti attira per il modo in cui parla, che hai sentito da uno, dall’altro… Cerca il direttore spirituale, ma secondo quello che ho detto, credo che è importante: distinguere dal confessore, sono due ruoli diversi; è un carisma laicale, lo può fare un prete, un vescovo, una donna, un uomo laico; e poi trovare la persona che ti suscita fiducia e simpatia spirituale. Questo è molto importante, voi capite bene quello che vuol dire, quella sintonia che aiuta tanto.

Non so se ho risposto. È una cosa importante. Questo che dico adesso serva almeno perché nessuno di voi d’ora in avanti stia senza direzione spirituale, senza accompagnamento spirituale, perché non crescerà bene, lo dico per esperienza. Va bene? È chiaro per tutti? Va bene. Andiamo avanti.

Domanda

Santo Padre, potrebbe aiutarci a capire come possiamo essere nel ministero ponti tra il mondo della fede e quello della scienza? Quale consiglio concreto può dare a noi che nella pratica pastorale abbiamo la responsabilità di promuovere un dialogo, non certo una contrapposizione tra queste due aree. Grazie.

Papa Francesco

È importante non negare il ruolo della scienza, anche della scienza che va avanti, la scienza che fa ricerca, è importante, è molto importante. E le persone che studiano, ma anche se non sono ricercatori per ufficio, ogni persona, pensa agli studenti universitari, tutti dobbiamo essere aperti alle inquietudini che vengono dagli studenti. Prima di tutto, direi, ascoltare, essere aperti alle problematiche. Se vai per la strada della problematica, ti chiedi: come mai? E te lo chiedi più volte. E non dai una di quelle risposte che un tempo si usavano, nei libri fatti per rispondere a tutte le difficoltà contro la Chiesa, contro la nostra fede. Sono risposte che non servono, sono puramente teoriche, e non possiamo proporle come risposte all’altezza di un universitario che sta studiando quella specialità. Dobbiamo dare una risposta all’altezza, degna dell’uomo, e questo credo che sia molto importante: guardare con orizzonti larghi, larghi… E si può dire: “Io non conosco questo, ma tu riflettici…; l’annuncio della fede è questo, su questo punto ci sono questi orizzonti, guarda…”. Sempre aperto, e guidarlo… E puoi anche dire: “Io non so come rispondere, ma vai a trovare questa persona, quest’uomo, questa donna, questo prete, che è specialista in questo e ti può spiegare”. Non chiudere mai la porta, non chiudere. Anche se vengono da te con questioni che tu intuisci che non sono coerenti con la morale; se tu puoi rispondere, rispondi; se non puoi rispondere, cerca qualcuno che può farlo e di’: “Di questo puoi parlare con questo, con quell’altro”. Ma sempre aperto, sempre aperto. Perché un atteggiamento di difesa chiude il dialogo, chiude la porta. Aperto: “Sì, interessante…”.

Alla maggior parte delle cose possiamo rispondere noi perché le sappiamo. Quando gli studenti universitari vengono con un dubbio, vi do un consiglio: quando ti portano un dubbio da parte dell’università, per esempio, gli studenti – forse questo è il settore di maggior lavoro –, se è possibile, rispondere con un altro dubbio, e così tu sei attento e lo stesso gesto che lui fa a te tu lo fai a lui, così che non si senta troppo sicuro. “Tu mi domandi questo, bene, ma per te questo come va?”. Questo, Gesù lo faceva spesso, lo vediamo nel Vangelo. A una domanda che conteneva una trappola, Gesù rispondeva con un’altra domanda, e lasciava l’interlocutore in mezzo alla strada intellettuale. È importante rispondere così, o, se non viene, orientare a una persona che può rispondere su quell’aspetto scientifico, quell’aspetto che va contro la fede e a cui forse io non posso rispondere. Nella maggior parte dei casi, credo che si possa rispondere. Ma – è sempre un consiglio che vi do – non rispondere “all’aria”: rispondo a te, a te che mi fai la domanda. Se tu ti comprometti con questa domanda, io a te dico questo. Gesù lo faceva. Per esempio, quando guariva di sabato, diceva: “E tu? Tu non prendi la mucca per darle da bere, il sabato?” (cfr Lc 13,15). Gli faceva vedere la contraddizione nella stessa domanda. Quando sono cose scientifiche serie, che vanno oltre la nostra possibilità, dire quello che possiamo e quello che non sappiamo; dire: “Su questo devi domandare a uno che capisca di più di questa scienza”. Essere umile, avere la fede non è avere la risposta su tutto. Quel metodo di difesa della fede non va più, è un metodo anacronistico. Avere la fede, avere la grazia di credere in Gesù Cristo è essere in cammino. E che l’altro capisca che tu sei in cammino, che tu non hai tutte le risposte a tutte le domande. C’era un tempo in cui era alla moda una teologia di difesa e c’erano libri con domande per difendere. Quando io ero ragazzo era quello il metodo di difendersi. Sono riposte, alcune buone, altre chiuse ma che non fanno bene al dialogo. “Hai visto? Ti ho risposto, ho vinto io”. No, non va. Il dialogo con la scienza sempre aperto. E dire: questo non so spiegartelo, ma tu devi andare da questi scienziati, da queste persone che forse ti aiuteranno. Fuggire dalla contrapposizione religione/scienza, perché questo è un cattivo spirito, non è lo spirito vero del progresso umano. Il progresso umano farà andare avanti la scienza e anche conservare la fede.

Domanda

Caro Papa Francesco, in questo tempo di preparazione a Roma, come possiamo vivere il nostro ministero senza perdere quell’“odore delle pecore” proprio del nostro ministero sacerdotale? Grazie.

Papa Francesco

Sia per quelli di voi che studiano, sia per quelli che lavorano nella Curia o hanno qualche impiego, non è una cosa buona per la salute spirituale non avere contatto con il popolo santo di Dio, contatto presbiterale. Per questo, consiglio, anzi, dico ai Prefetti di guardare se qualcuno non ha questo ministero il sabato e la domenica, in una parrocchia o dove sia, di stare attenti e di invitare a farlo; e se non lo fa, di stare attenti e che ne parleremo. È importante mantenere il contatto con la gente, con il popolo fedele di Dio, perché c’è l’unzione del popolo di Dio: sono le pecore e, come tu dici, si può perdere l’odore delle pecore. Se tu le allontani, sarai un teorico, un teologo bravo, un filosofo bravo, un curiale bravissimo che fa tutte le cose, ma hai perso la capacità di sentire l’odore delle pecore. Anzi, la tua anima ha perso la capacità di lasciarsi svegliare dall’odore delle pecore. Per questo credo che sia importante – direi necessario, anzi, obbligatorio – che ognuno di voi abbia un’esperienza pastorale settimanale, almeno. In una parrocchia, in una casa di ragazzi o ragazze, o di anziani, qualunque sia, ma il contatto con il popolo di Dio. Mi raccomando. E dico ai Prefetti: vedete se c’è qualcuno che non lo fa: non per punirlo, ma per parlargli, perché è importante, e sta perdendo una grande forza, una grande forza della vita sacerdotale.

A me piace parlare con i preti delle “quattro vicinanze”. Vicinanza con Dio: tu preghi? Vicinanza con il vescovo: com’è la tua vicinanza con il vescovo? Sei uno di quelli che sparla del vescovo o “quanto più lontano tanto meglio”? O sei vicino al vescovo e vai a discutere con il vescovo? Terzo: vicinanza tra voi. È interessante, è una delle cose che si trovano sia nei seminari sia nei presbiteri: la mancanza di vera vicinanza fraterna tra i preti. Sì, tutti con un grande sorriso, ma poi se ne vanno e in piccoli gruppetti si spellano l’un l’altro. Questa non è vicinanza, questo è mancanza di fraternità. E la quarta: vicinanza al popolo di Dio. Se non c’è vicinanza al popolo di Dio, tu non sei un buon prete. E quella vicinanza si mantiene e si esercita con il ministero – in questo caso, settimanale.

Domanda

Buongiorno, Santo Padre. Il sacerdote è un segno dell’amore di Dio per gli uomini. Tuttavia, purtroppo, tante volte tale segno viene sfigurato a causa delle nostre mancanze. Santità, come fare per trovare un equilibrio tra l’esperienza della misericordia per le nostre mancanze e lo sforzo per vivere la virtù e raggiungere la santità? Quali, secondo Lei, sono gli aspetti più urgenti nella formazione dei seminari che vanno sottolineati e presi in considerazione affinché i seminaristi di oggi, ma pure quelli di domani, possano rispondere alla chiamata di Dio?

Papa Francesco

Grazie. Ci sono due cose diverse, in quello che hai detto. Prima hai usato una parola che a me non piace – non ti rimprovero, l’hai usata, ma non mi piace –: la parola “equilibrio”. La vita non è un equilibrio, cari, non è un equilibrio. E se tu trovi uno che pensa: “io sono equilibrato perfetto”, a questo direi: tu non sei niente! Perché l’equilibrio, che lo faccia quello che lavora nel circo, che fa quelle cose, che fa l’equilibrista. Ma la vita è uno squilibrio continuo, perché la vita è camminare e trovare, trovare difficoltà, trovare cose belle che ti portano avanti e queste ti squilibrano, sempre. Anzi, se tu hai delle pratiche da fare, è vero, hai bisogno di un equilibrio nella pratica, ma che non manchi anche quello tuo affettivo, diciamo così, che ti bilancia da una parte e dall’altra, e dire: “Io mi sento di questa parte”. Ma l’equilibrio, nella vita, è anche l’equilibrio con l’esperienza di perdono e di misericordia per il peccato. Ma grazie a Dio che siamo peccatori, caro, e grazie a Dio che abbiamo bisogno di andare tutte le settimane o ogni quindici giorni – io lo faccio ogni quindici giorni – dal confessore perché ci perdoni. E questo è uno squilibrio grande perché ti porta all’umiltà. La vita cristiana è un continuo camminare, cadere e alzarsi. Camminare un po’ solo un po’ con gli altri: non c’è una tabella di marcia. Certo, tu metti lì il navigatore sulla macchina e vai. Ci sono dei consigli di preghiera, di cose che ti aiutano a crescere. Questo è lo squilibrio. Anzi, direi il contrario: come vivere nello squilibrio, nello squilibrio quotidiano. Non avere paura dello squilibrio: siamo umani. E nello squilibrio fare il discernimento. Una persona “equilibrata” non può fare il discernimento, perché non ha mozioni di spirito. Nello squilibrio ci sono delle mozioni di Dio che ti invitano a qualcosa, alla volontà di fare il bene, a rialzarsi dopo la caduta nel peccato… Saper vivere nello squilibrio: lì si porta un equilibrio diverso. Parlerei di un equilibrio dinamico, che non sono io a poterlo reggere: lo regge il Signore. Ti va portando avanti, con l’unzione dello Spirito. Questo riguardo all’equilibrio e allo squilibrio.

Poi, la formazione dei seminari. Io credo che qui il Cardinale [Prefetto del Dicastero per il Clero] può parlare meglio di me dei seminari perché nel Dicastero sono specialisti. Per esempio, incomincio col dire: il seminario dev’essere di un certo numero di seminaristi, che insieme facciano dire “la comunità”. “No, noi siamo cinque in diocesi”: questo non è un seminario, questo è un movimento parrocchiale. Il seminario dev’essere un numero – 25, 30 – un numero moderato. Se sono 200, divisi in piccole comunità: un numero umano di gruppo, di comunità, questo è importante. I seminari grossi – 300, tutti insieme – non vanno più! Erano l’espressione di un’altra epoca. No, piccole comunità dove si lavora, ma piccole comunità inserite in una più grande.

La formazione dei seminaristi: i seminaristi devono avere una buona formazione spirituale. “Io vado al seminario, sto imparando filosofia, teologia…”. Sì, ma lo spirito, che cos’è? Prima di tutto, una buona formazione spirituale. Anche nel propedeutico. Il fine del propedeutico, oggi, è questo: abituare il seminarista al discernimento spirituale, alla formazione spirituale, alla scienza, alle scienze dello spirito. Secondo, una seria formazione intellettuale. Questo non vuol dire che siano maestri delle idee, no. Che sappiano ragionare e che sappiano la teologia di base, con questo sono tranquillo, e ci vogliono quattro anni per la teologia di base. Che sappiano questo. Ma con una bella formazione spirituale. Per questo è necessario, a volte, aggregare piccole comunità seminaristiche in una, perché ci siano professori e formatori adatti. Ho detto spirituale e intellettuale. Adesso: comunitaria. In piccoli gruppi, sì, ma vita comunitaria, devono imparare a vivere comunitariamente, e non cadere dopo nella critica uno dell’altro, nei “partiti” dentro il presbiterio, e tutto questo. Questo si impara, in un seminario. E poi, la vita apostolica. Ogni seminario ha la pratica propria della vita apostolica. Di solito, il fine settimana vanno in parrocchia: questo è molto importante, perché la vita apostolica ti dà anche questa capacità, “l’odore delle pecore” di cui tu parlavi. Ti dà la capacità di situarti nella realtà. E forse ti tocca andare con un parroco nevrotico, in una parrocchia dove ci sono dei problemi, e tu vedrai come gestire questo. E la gente delle parrocchie dove voi andate vi conosce meglio – a volte – dei superiori. La mia esperienza: quando chiedevo informazioni per promuovere uno agli ordini, sia al diaconato sia al presbiterato, quando ero gesuita, chiedevo ai fratelli coadiutori, a tanti ma sempre ai fratelli coadiutori e alla gente della parrocchia; e le migliori informazioni non mi venivano dai professori: erano buone, ma le migliori venivano dai fratelli coadiutori e dalle donne delle parrocchie. È curioso: hanno il fiuto. Ricordo un caso, un bravo ragazzo, intelligente, che doveva essere ordinato diacono, questo lo ricordo bene. Una donna della parrocchia mi disse: “Io lo farei aspettare un po’ perché è bravo, ha tutte le qualità, ma c’è qualcosa che non mi convince”. Basta. E un fratello coadiutore mi ha detto: “Padre, lo faccia aspettare un anno, non gli farà male”. Gli altri, a tutto incenso. Ho seguito quella strada, e dopo quattro mesi se n’è andato di sua volontà: era scoppiata una crisi. Questo è importante. Il popolo di Dio ti capisce bene. Dunque, la formazione in seminario ha quattro cose: la formazione spirituale dev’essere seria, direzione spirituale seria; formazione intellettuale seria, non da manuale; formazione comunitaria tra i seminaristi; e formazione apostolica.

Domanda

Santo Padre, l’odierna generazione di sacerdoti e seminaristi è immersa nel mondo digitale e dei social media. Come possiamo imparare a usare questi strumenti come opportunità per condividere la gioia di essere cristiani, senza dimenticare la nostra identità o essere troppo esposti e arroganti? Grazie.

Papa Francesco

Credo che queste cose si debbano usare, perché è un progresso della scienza, fanno un servizio per poter progredire nella vita. Io non li uso perché sono arrivato tardi, sapete? Quando sono stato ordinato vescovo, 30 anni fa, me ne hanno regalato uno, un telefonino, che era come una scarpa, grande così, no?. Io dissi: “No, questo non ce la faccio a usarlo”. E alla fine ho detto: “Farò una chiamata”. Ho chiamato mia sorella, l’ho salutata, poi l’ho restituito. “Regalami un’altra cosa”. Non sono riuscito a usarlo. Perché la mia psicologia non andava o ero pigro, non si sa. L’unica cosa che sono riuscito a usare è una Olivetti con la memoria, di una riga soltanto, che ho comprato quando ero in Germania in un Angebot, 59 marchi, niente. E questa mi ha aiutato, ed è rimasta a Buenos Aires, l’ho usata fino adesso. Non è il mio mondo. Ma voi dovete usarli, dovete usarli solo per questo, come l’aiuto per andare avanti, per comunicare: questo va bene. Ma non posso tralasciare di parlare qui dei pericoli, i pericoli di stare a guardare le notizie di qua, di là, di là e in giro tutta la giornata; o guardare quel programma che mi interessa o quell’altro, perché tu hai tutto alla mano… O mettere questa musica che mi interessa e che non mi lascia lavorare… Bisogna saper usare bene. E su questo c’è anche un’altra cosa, che voi conoscete bene: la pornografia digitale. Lo dico a chiare lettere. Non dirò: “Alzi la mano chi ha avuto almeno un’esperienza di questo”, non lo dirò. Ma ognuno di voi pensi se ha avuto l’esperienza o ha avuto la tentazione della pornografia nel digitale. È un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche, e anche sacerdoti e suore. Il diavolo entra da lì. E non parlo soltanto della pornografia criminale come quella degli abusi dei bambini, dove tu vedi in vivo casi di abusi: questa è già degenerazione. Ma della pornografia un po’ “normale”. Cari fratelli, state attenti a questo. Il cuore puro, quello che riceve Gesù tutti i giorni, non può ricevere queste informazioni pornografiche. Che oggi sono all’ordine del giorno. E se dal tuo telefonino tu puoi cancellare questo, cancellalo, così non avrai la tentazione alla mano. E se non puoi cancellarlo, difenditi bene per non entrare in questo. Vi dico, è una cosa che indebolisce l’anima. Indebolisce l’anima. Il diavolo entra da lì: indebolisce il cuore sacerdotale.


Scusatemi se scendo a questi dettagli sulla pornografia, ma c’è una realtà: una realtà che tocca i sacerdoti, i seminaristi, le suore, le anime consacrate. Avete capito? Va bene. Questo è importante.

Domanda

Papa Francesco, in questi anni a Roma, insieme a un mio confratello, abbiamo seguito un gruppo di ragazzi dopo la Cresima in una parrocchia qui vicino. Tutti e due veniamo da altri Paesi. Un giorno un giovane mi ha detto: “Ma ti sei accorto che lui – riferendosi all’altro confratello – parla meglio di te l’italiano? Tu invece usi meglio le mani e i gesti”. Con questa osservazione di un ragazzo ho capito che nell’evangelizzazione tanto vale il parlare bene quanto accompagnare con le mani il discorso. Tanto importano le parole, quanto i gesti e forse per gli italiani sono i gesti che accompagnano le parole. Nella formazione verso il sacerdozio ci insegnano tanto come parlare, come usare bene le parole e la parola, a fare un discorso filosofico coerente, a interpretare la Scrittura, a fare un bel sermone in Chiesa. Tuttavia Lei, Santo Padre, ci ha fatto vedere l’importanza dei gesti, delle opere, della tenerezza concreta, e quanto sono potenti i gesti, quanto sono eloquenti i nostri gesti. Io vedo come Lei abbraccia i sofferenti, e quanto vorrei farlo pure io. Vedo come bacia i malati, e quanto vorrei farlo pure io. Vedo come tocca i bisognosi, e quanto vorrei farlo pure io. So che non si imparano i gesti dalla notte al giorno, e so che non sarò mai un sacerdote che predica con l’esempio se non imparo il linguaggio dei gesti da oggi. Come ha imparato Lei questi gesti di misericordia? Come possiamo arrivare anche noi nel seminario, come possiamo imparare questo linguaggio così importante?

Papa Francesco

Grazie. Dove ho imparato i gesti… Mah, i gesti, la vita te li insegna. Per esempio, una cosa che ho imparato dall’esperienza personale è che quando vai a visitare un malato, che sta male, non devi parlare troppo. Prendi la mano, guardalo negli occhi, di’ due parole e rimani così. Nell’intervento che hanno fatto a me, in cui mi hanno tolto una parte del polmone quando avevo 21 anni, venivano tutti gli amici, le zie, tutti a parlare: “Vai, vai ti riprenderai presto, parlerai, potrai giocare un’altra volta…”. Mi piaceva, ma mi stufava. Un giorno è venuta la suora che mi aveva preparato per la prima Comunione, suor Dolores, brava vecchia, e mi ha preso la mano, mi guardava negli occhi e mi disse: “Stai imitando Gesù”, e non ha detto niente di più. Quella mi ha consolato. Per favore, quando andate da un ammalato, non riempire di motivazioni di promesse del futuro. Il gesto della vicinanza parla più con la presenza che con le parole.

Un gesto ti ho fatto vedere. I gesti si imparano; i gesti della tenerezza li imparerai con i vecchi, andando dai vecchi. Il primo giorno li saluterai così, a distanza. Dopo due, tre volte che vai, li accarezzerai, i vecchietti. Lascia, lasciati esprimere. Lasciare che l’espressione sia totale. Anche nella predica. Una volta ho chiamato una nipote. “Come stai?” – era una domenica, a volte le domeniche chiamo mia sorella – “Come stai?”. “Bene, bene, ma un po’ annoiata perché siamo andati con il marito e i figli a Messa in quella parrocchia non abituale e ho sentito una bella spiegazione filosofica di 40 minuti, ma della Parola di Dio niente!”. Se tu non sei umano con i gesti, anche la mente si irrigidisce e nella predica dirai cose astratte che nessuno capisce, e qualcuno avrà la tentazione di andare fuori a fumare una sigaretta e tornare, come si fa… Ci sono tre linguaggi che ti fanno vedere la maturità di una persona: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore e linguaggio delle mani. E noi dobbiamo imparare a esprimerci in questi tre linguaggi: che io pensi quello che sento e faccio, senta quello che penso e faccio, faccia quello che sento e penso. Qui uso la parola equilibrio: un equilibrio fra queste cose. A volte ti viene voglia di fare uno scherzo a uno, e ti viene, ma… che sia il gesto con il pensiero e il cuore e le mani.

Quando vedo dei ragazzi malati – “quanto soffrono i bambini”, diceva Dostoevskij – i ragazzi malati, lì, carezzarli… Qualcuno ti può accusare di essere pedofilo, ma no, no, fuori da questa possibile accusa. Come i vecchietti che hanno bisogno di carezze… Ricordo che andavo con frequenza a Buenos Aires alle case di riposo, e a volte celebravo la Messa. I vecchietti sono geniali, perché ti fanno le domande più impegnative… E alla messa poi dicevo: “Chi di voi fa la comunione?”. E passavo, perché non possono camminare tante volte, sono vecchi, vanno con il bastone. E andavo: “Chi vuole comunicarsi alzi la mano”. Tutti alzavano la mano… Do la comunione a una signora, poi lei mi prende la mano: “Grazie, padre, sono ebrea”. “Ma questo che ti ho dato era pure ebreo, vai avanti”. I vecchi vogliono carezze, vogliono che li ascolti, vogliono che li fai parlare dei loro tempi, e tu imparerai tanto.

La tenerezza. Qui cadiamo nello stile di Dio. Lo stile di Dio è la vicinanza. Lui stesso lo dice nel Deuteronomio: “Pensa, quale popolo ha i suoi dèi così vicini come tu hai me?” (cfr cap. 4). La vicinanza è lo stile di Dio. Si è fatto vicino nell’incarnazione di Cristo. È vicino a noi. Sempre la vicinanza. Ma una vicinanza con compassione, perché perdona sempre, e con tenerezza. Un buon prete è vicino, compassionevole e tenero. Sicuramente è più piacevole carezzare una ragazza bella che una vecchietta – state attenti lì! – ma la tenerezza cresce e si esprime meglio negli opposti, sia nei bambini, con i bambini piccolini che ti chiamano, e con gli anziani, ma… si impara…

Una volta un mio professore di filosofia – era un grande padre spirituale, ha pubblicato tanti libri anche sugli esercizi e sono tradotti in italiano, padre Fiorito – un giorno ha dato una conferenza sui comportamenti, i fondamenti filosofici, ma è scivolato subito sulla spiritualità, e una delle sue domande io la farei a tutti voi, seminaristi, teologi: voi giocate con i bambini? Sapete giocare con i bambini? Questa domanda lui la faceva sempre ai genitori, diceva: “Tu, papà, quando torni dal lavoro, o tu mamma, giochi con i tuoi figli?”. La tenerezza si impara con i bambini e con i vecchi. E l’abitudine che c’è di allontanare i vecchi perché disturbano, questo ci allontana da una delle fonti di tenerezza. Lo stile di Dio, non dimenticarti, è sempre vicinanza, compassione e tenerezza. E se tu sei vicino, con compassione e tenerezza, sei sulla strada buona. La tenerezza non è “fare il buono”. A volte nel fare il buono si può scivolare nel fare lo stupido. No. Tenerezza è questo che ho detto.

Domanda

Buongiorno Santo Padre. Vorrei fare la mia domanda partendo da due eventi importanti della Chiesa universale: i 400 anni di Propaganda fide a servizio della missione e dell’evangelizzazione e poi il Sinodo dei Vescovi con il tema “Comunione, partecipazione e missione”. Come noi giovani seminaristi possiamo uscire dal nostro “comodismo” per evangelizzare gli altri giovani? Quali sono le sfide per noi giovani che vogliamo diventare sacerdoti nel mondo di oggi? Grazie.

Papa Francesco

Non c’è un metodo per questo. Tu usi una parola molto clericale, “comodismo”. Cioè, non disturbare il prete, il prete è impegnato, il comodismo porta tante volte i preti a cercare la propria tranquillità: io ricevo dalla tal’ora alla tal’ora… Una volta un bravo parroco di un quartiere mi diceva che voleva fare un muro dove c’era la finestra, perché la gente a qualsiasi ora andava e bussava alla finestra perché aveva bisogno di questo, di quello, di quell’altro, di una preghiera, di una Messa… E io ho detto: “E tu hai fatto il muro sulla finestra?”. Disse: “No, non posso, padre, senza la gente non sono prete”. Bella risposta quella, bella! Il comodismo. C’è una figura che sempre mi ha colpito, il sacerdote comodo, un po’ il “monsieur l’abbé” delle corti francesi, un funzionario – voi che lavorate in curia state attenti! –, il sacerdote funzionario. Il sacerdote funzionario vive il sacerdozio come se fosse un impiego. È comodo, ha i suoi orari, questo spetta a me, questo no… E così con la crescita si trasforma in uno “zitellone”, con tante abitudini maniacali, è un nevrotico quotidiano. Stai attento, stai attento a questo. Non cercare la propria comodità; il sacerdozio è un servizio sacro a Dio, il servizio di cui l’Eucaristia è il più alto grado, è un servizio alla comunità. Se tu non te la senti, parla con il vescovo, forse sarai un buon padre di famiglia, ma per favore non siate funzionari. Questa è la comodità di cui parli.

C’è un’altra cosa che accompagna questa comodità, è la dimensione “arrampicatrice”, i sacerdoti arrampicatori, che fanno carriera. Credo che si vedono… In curia no, in curia non succede! Ma da altre parti succede… Quando stai per fare un cambiamento, lì arrivano, dai, dai, dai… l’arrampicatore. Per favore fermatevi, fermatevi. Perché l’arrampicatore alla fine è un traditore, non è un servitore. Cerca il proprio vantaggio e poi non fa niente per gli altri. Io avevo una nonna a cui piaceva farci “catechesi” normali, era migrante e i migranti, con il tempo, i migranti italiani, venivano in America e facevano la casa e l’educazione dei figli… E la nonna ci insegnava: “Nella vita dovete progredire”, cioè subito i mattoni, la terra, la casa, progredire, cioè fare una posizione, una famiglia e ci insegnava questo. Ma state attenti a non confondere il progredire con l’arrampicarsi, perché l’arrampicatore è uno che sale, sale, sale e quando è su fa vedere il… La nonna diceva la parola! Ti fa vedere, lui è così, ti fa vedere quello. L’unica cosa che gli arrampicatori fanno è il ridicolo, fanno il ridicolo. Questo mi ha fatto bene nella vita. Anzi, quando vengono le informazioni per i vescovi – lei è nella Congregazione dei Vescovi e conosce come vanno le cose –, subito le informazioni dei compagni: questo è un arrampicatore, questo sta cercando il posto… State attenti, cioè la comodità e l’arrampicamento, far carriera. Quando ero giovane si usava nello spagnolo e non so se in italiano si usa: questo ha scelto la “carriera” sacerdotale. La carriera di medico, di avvocato… Oggi non si usa più, grazie a Dio, ma l’arrampicatore fa carriera, state attenti, state attenti; e se voi avete un compagno così, aiutatelo a fermarsi, a non arrampicarsi, perché alla fine farà vedere il peggio di sé stesso. E l’arrampicatore non è mai soddisfatto.

Comunione, partecipazione e missione. Sì, se hai comunione tu pensi agli altri, se hai partecipazione tu condividi con gli altri, se hai missione tu pensi agli altri. Sempre il servizio, servire. Il servizio, anche quello liturgico è un servizio. Servire agli altri, non la comodità propria. Credo che su questo non mi viene altro. Avete capito chiaramente il pericolo di cercare il proprio piacere e la propria tranquillità e il pericolo di arrampicarsi, e purtroppo nella vita ci sono tanti carrieristi. Tanti. Per favore, se qualcuno di voi ha questa tentazione, fermati, chiedi consiglio per fermarla.

Domanda

Buongiorno, Santo Padre. Grazie mille, Santità, per questa meravigliosa occasione di stare insieme a Lei. Il cammino vocazionale di un seminarista è quello che consiste sempre nel discernimento della sua vocazione. Dalla mia esperienza e da quanto so dell’esperienza degli altri, a volte – o il più delle volte – ci si accorge delle proprie debolezze, si sente la paura di non poter soddisfare le esigenze della vocazione sacerdotale, la paura di non essere felice nel ministero. O addirittura, si sente di essere attratto non principalmente dall’amore di Dio, ma da altri dettagli meno importanti che caratterizzano il sacerdozio, eccetera. Tuttavia, allo stesso tempo, si sente fortemente la chiamata di Dio dentro di sé e dalle circostanze che hanno caratterizzato il suo cammino. In questo tipo di situazione, Santità, quale potrebbe essere la strada giusta da seguire per un seminarista nel suo processo di discernimento? Più in generale: in che cosa consiste un giusto discernimento? Grazie mille, Santo Padre.

Papa Francesco

Grazie. Il giusto discernimento – prima di tutto ti dico – non consiste in un equilibrio, non consiste in questo. Quello lo fa la bilancia. Il discernimento sempre è “squilibrato”, scusa, la situazione sulla quale devi discernere è squilibrata, perché hai emozioni da questa parte, emozioni di qua, emozioni di là… Il giusto discernimento è cercare come questo squilibrio trova la strada di Dio – non “trova l’equilibrio” – perché sempre si risolve, lo squilibrio, su un piano superiore, non sullo stesso piano. E questa è una grazia della preghiera, una grazia dell’esperienza spirituale. Vai davanti al Signore con uno squilibrio, aiutato da un fratello se vuoi, e la preghiera, la ricerca di fare la volontà di Dio ti porta a risolvere lo squilibrio, ma su un altro piano. Sempre ti porta avanti, ti toglie dalla contraddizione dello squilibrio – che non è una contraddizione matematica, è una contraddizione umana – e ti porta un passo avanti. Uno squilibrio non si risolve con una delle parti soltanto, no. Ambedue cambiano verso una nuova situazione. E questa è la grazia dell’accompagnamento spirituale, che ci aiuta a trovare questa strada per risolvere gli squilibri.

“In questo tipo di situazione quale potrebbe essere la strada giusta da seguire per un seminarista nel suo processo di discernimento?”. Quello che ho detto sul discernimento. La preghiera e il dialogo con la persona che ti accompagna, che sia un sacerdote, che sia un amico, che sia una suora, che sia un laico, chiunque sia. Preghiera e dialogo.

“Più in generale, in che cosa consiste il giusto discernimento?”. Un giusto discernimento non consiste nel fatto che il risultato sia un equilibrio. Il giusto discernimento lo vedi dopo. La decisione è armonica, non “equilibrata”. Una cosa è l’equilibrio, altra cosa è l’armonia. Sono cose diverse. L’equilibrio è una cosa matematica, fisica; l’armonia è una cosa di bellezza, se vuoi dire così. L’equilibrio è fare un confronto delle parti e trovare un compromesso; l’armonia, nel discernimento, è il dono dello Spirito Santo: l’unico che può fare l’armonia è lo Spirito Santo. È un dono. San Basilio definiva lo Spirito Santo “ipse harmonia est”. Lui è l’armonia. Già entriamo nel discernimento con lo Spirito Santo dentro. Tu non puoi fare un discernimento cristiano senza lo Spirito Santo. E per questo lo squilibrio entra in preghiera, entra nella strada dello Spirito Santo, e Lui ti porta a una nuova situazione armonica. E poi si può entrare in un’altra disarmonia, e sarà lo Spirito a portarti più avanti. Non è una cosa fisica, non è una cosa intellettuale, non è una cosa sentimentale: è la grazia di ricevere lo Spirito Santo, che è armonico. E con la preghiera noi arriviamo a questa grazia di capire l’armonia dello Spirito. Non so se ho risposto bene a questo. Dimmi: hai capito? Non si tratta nel discernimento di equilibrare come una bilancia, no: di pregare, di andare avanti e lasciare che sia lo Spirito con le emozioni interiori ad andare avanti.

E poi, qual è il risultato di un giusto discernimento? La consolazione spirituale. Lo Spirito Santo, quando ti dà l’armonia, ti consola. Invece, quando tu stai con un problema, non sei in consolazione, sei in desolazione. Noi dobbiamo imparare a usare, nella nostra vita, le emozioni dello Spirito, consolazione e desolazione: questo mi fa bene, questo mi fa felice, questo mi toglie la pace… Cosa fa il Signore nel cuore e cosa fa il diavolo. Perché il diavolo esiste! San Pietro dice che gira, gira, gira per cercare chi mangiarsi. È il nostro pericolo. Ma lo Spirito è la guida. E questa è la strada: seguire lo Spirito Santo.

[Rivolto al Cardinale Lazzaro You Heung-sik] Io vorrei rispondere ancora alla decima domanda, perché è di un ucraino, e la sua Patria soffre.

Domanda

Santità, Papa Francesco, sì, sono un sacerdote ucraino. Oggi vediamo come nel mondo contemporaneo ci sono tante guerre e conflitti armati, in particolare la guerra in Ucraina. Vorrei chiederLe: quale è il ruolo che deve svolgere la Chiesa cattolica nei confronti dei territori colpiti dalle guerre, e quale sarebbe il compito dei sacerdoti in quelle regioni? Grazie.

Papa Francesco

Grazie. La Chiesa cattolica – la Chiesa, la santa madre Chiesa – è madre, madre di tutti i popoli. E una madre, quando i figli sono in litigio, soffre. La Chiesa deve soffrire davanti alle guerre, perché le guerre sono la distruzione dei figli. Come una mamma soffre quando i figli non vanno d’accordo o litigano e non si parlano – le piccole guerre domestiche – la Chiesa, la madre Chiesa davanti a una guerra come questa nel tuo Paese, deve soffrire. Deve soffrire, piangere, pregare. Deve assistere le persone che hanno avuto delle conseguenze brutte, che perdono la casa o ferite di guerra, morti… La Chiesa è madre e il ruolo prima di tutto è vicinanza alla gente che soffre. È la madre, è come una madre.

E poi è una madre anche creativa di pace: cerca di fare pace in certi momenti… In questo caso non è molto facile, ma il cuore aperto della madre Chiesa… Voi cristiani non prendete partito in questo. È vero che c’è la propria Patria, questo è vero, dobbiamo difenderla. Ma andare oltre, oltre a questo: un amore più universale. E la madre Chiesa dev’essere vicina a tutti, a tutte le vittime. Anzi, pregare per il peccato degli aggressori, per questo che viene qui a rovinarmi la patria, a uccidermi i miei: io prego per questo? E questo è un atteggiamento cristiano. Voi soffrite tanto, il tuo popolo, lo so, sono vicino. Ma pregate per gli aggressori, perché sono vittime come voi. Non si vedono le ferite che hanno nell’anima, ma pregate, pregate perché il Signore li converta e voglia venire la pace. Questo è importante.

Domanda

Buongiorno. Santo Padre, buongiorno e grazie. Ci ricorda la Ratio fundamentalis che il primo ambito in cui si sviluppa la formazione permanente è la fraternità presbiterale. Infatti, un presbiterio unito in cui i sacerdoti e il loro vescovo si sostengono a vicenda, celebrano le gioie e soffrono per le difficoltà dell’altro, contribuirebbe a rendere il presbiterio uno spazio di formazione e di comunione. Quale consiglio può darci, a partire dalla Sua esperienza di pastore, per creare nel presbiterio relazioni più fraterne e che ci aiutino ad affrontare le sfide del tempo presente? Grazie, Santità.

Papa Francesco

Ci sono tante cose. Prima di tutto, la vicinanza e il parlarsi, non fare distanza. Ai vescovi dico: i preti sono il primo vostro prossimo, state vicini ai preti. Dico loro: “Sento un prete che mi dice: Ho chiamato in episcopio per parlare con il vescovo e la segretaria mi ha detto che questo mese è pieno, forse il prossimo mese…”; penso che questo vescovo sta rovinando i sacerdoti. Vicinanza. Per esempio, l’arcivescovo di Napoli, da poco nominato, cosa ha fatto? Ha dato il numero del telefonino a tutti i preti – i napoletani sono più di mille –. “Ti molestano?” – “No, no, ma quando hanno bisogno mi chiamano, direttamente”. Questa vicinanza vale per il prete con il vescovo e anche per il prete con gli altri. Non so se questo succede qui, ma nella mia Patria succede, che ci sono dei gruppi di preti che sparlano degli altri, e ci sono quelli di destra, quelli di sinistra, quelli di qua e quelli di là… Questo è un veleno. È un veleno, un tarlo che uccide il corpo presbiterale. Unità tra i presbiteri. E se tu non hai i pantaloni per dire le cose in faccia a uno, te la mangi. Ma non vai a toglierti la fame criticando il tuo fratello sacerdote, no. Questo non è da uomini. L’uomo va e dice le cose come stanno. Con carità e con amore. E se non può dirle perché quell’altro è un po’ violento, lo dica al vescovo che è padre di tutti. Ma non dirlo a tutti gli altri. Ci vuole questa vicinanza, per evitare che il corpo sacerdotale finisca male. E il vescovo, sostenerlo a vicenda. Alle volte il vescovo è un po’ “maniaco”, ha le sue cose, perché anche i vescovi sono uomini! E finisco con questo, su come si deve fare con il vescovo, con un racconto, che pure lo raccontava la nonna. C’era una famiglia molto bella, ma il nonno che abitava con loro invecchiò, invecchiò, e incominciava a cadere la bava mentre mangiava e si sporcava. E un giorno il papà disse alla famiglia: “Da domani, il nonno mangerà in cucina. Ho fatto una bella tavola, lì andrà il nonno, e noi possiamo così invitare gente e lui da una parte”. Passano alcuni giorni e il papà torna dal lavoro e vede il figlio di sei anni che lavorava con i chiodi, il legno… “Cosa fai?” – “Un tavolino, papà!” – “Perché?” – “Per te, per quando sarai vecchio!”. I vecchi, così, si mettono da parte. Per favore, cercate di conoscere il vescovo come papà. E se uno ha la possibilità di dirgli i difetti, lo dica, come al papà. È il padre, non è un nemico né il padrone della ditta.

Grazie tante, cari! Adesso preghiamo la Madonna perché ci aiuti tutti.