Un bacio fraterno che è anche un impegno

I rapporti fra cattolici e ortodossi a 60 anni dall’incontro fra Paolo VI e Atenagora. Su L’Osservatore Romano una riflessione del cardinale Kurt Koch, presidente del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

Pope Paul VI and Ecumenical Patriarch Athenagoras attend a prayer service in Jerusalem in January 1964. (CNS photo/Giancarlo Giuliani, Catholic Press Photo)

I giorni 5 e 6 gennaio hanno segnato il sessantesimo anniversario dell’incontro che ebbe luogo a Gerusalemme tra Papa Paolo VI e il Patriarca ecumenico Atenagora. Si trattò allora del primo incontro tra un Papa e un Patriarca ecumenico dopo quello avvenuto durante il Concilio di Ferrara (1438-1439) tra Papa Eugenio IV e il Patriarca Giuseppe II . Questa importante ricorrenza è una proficua opportunità per guardare innanzitutto al doloroso passato delle relazioni tra le due Chiese, ben sapendo che l’unico modo per agire sul passato è purificare la memoria storica e perdonare. Tuttavia, lo sguardo rivolto agli eventi trascorsi ha come scopo principale quello di registrare con gratitudine ciò che è stato realizzato dal 1964 in poi e di consentire nuovi passi verso il futuro.

Il ritorno alla carità con forza giuridica

L’incontro di Gerusalemme ha avuto un impatto sulla storia soprattutto perché quel bacio fraterno suggellò la volontà di entrambe le Chiese di ripristinare tra loro la carità. Tale gesto sta davanti ai nostri occhi come icona duratura della volontà di riconciliazione. Per questo Papa Francesco ha sottolineato, nel messaggio indirizzato al Patriarca ecumenico Bartolomeo I in occasione della festa patronale di Sant’Andrea del 2023, che il cammino verso la riconciliazione è iniziato «con un abbraccio», «un gesto che esprime eloquentemente il mutuo riconoscimento di fraternità ecclesiale» (Francesco, Messaggio al Patriarca Bartolomeo in occasione della festa di Sant’Andrea il 30 novembre 2023).

Questo bacio fraterno racchiude un profondo significato spirituale. Poiché l’agape e il bacio fraterno rappresentano il termine e il rito dell’unità eucaristica, la meta del cammino iniziato a Gerusalemme deve essere il ristabilimento della comunione eucaristica. Di fatti, là dove l’agape è seriamente vissuta come realtà ecclesiale, essa, per essere credibile, deve diventare anche agape eucaristica. Ciò corrispondeva all’intenzione dei due pellegrini incontratisi a Gerusalemme, che in tale evento intravidero l’alba di un nuovo giorno in cui le generazioni future avrebbero lodato insieme l’unico Signore attraverso la partecipazione al suo Corpo e Sangue eucaristico.

Il memorabile incontro di Gerusalemme preparò il terreno a quello del 7 dicembre 1965, quando nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar a Costantinopoli e nella Basilica di San Pietro a Roma i massimi rappresentanti delle due Chiese cancellarono le scomuniche reciproche del 1054, affermando la comune volontà di togliere gli anatemi, il cui ricordo tuttora persiste, «dalla memoria e dal mezzo della Chiesa», affinché non potessero più rappresentare «un ostacolo al riavvicinamento nell’amore» (Déclaration commune du Pape Paul vi et du patriarche Athénagoras exprimant leur décision d’enlever de la mémoire et du milieu de l’Eglise les sentences d’excommunication de l’année 1054, dans: Tomos Agapis. Vatican-Phanar, 1958-1970, Rome – Istanbul 1971, n. 127). In questo modo solenne e giuridicamente vincolante, gli avvenimenti del 1054 e le loro conseguenze furono consegnati all’oblio storico, e nello stesso tempo venne dichiarato che essi non appartenevano più all’inventario ufficiale delle due Chiese.

Con questo atto storico, il veleno della scomunica fu estratto dall’organismo della Chiesa e il “simbolo della divisione” venne sostituito dal “simbolo della carità”; nelle parole dell’allora teologo Joseph Ratzinger, «il rapporto di “carità raffreddata”, di “contrapposizioni, diffidenze e antagonismi”, è stato sostituito dal rapporto di carità e fratellanza, simboleggiato dal bacio fraterno» (J. Kardinal Ratzinger, Rom und die Kirchen des Ostens nach der Aufhebung der Exkommunikationen von 1054, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie, München 1982, 214-230, zit. 229). Con la revoca delle scomuniche, la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli possono nuovamente riconoscersi come Chiese sorelle, fatto ancora più significativo se pensiamo che i patroni delle due Chiese, san Pietro e sant’Andrea, erano fratelli biologici.

Il dialogo della carità al servizio della riconciliazione

Questi eventi memorabili divennero il punto di partenza del dialogo ecumenico della carità, che si approfondì negli anni successivi tramite un vivace scambio di visite e di comunicazioni, testimoniato nella documentazione comune che ha il bellissimo nome di Tomos Agapis. Il dialogo della carità ha trovato espressione visibile soprattutto nella buona tradizione di visite reciproche tra la Chiesa di Costantinopoli e la Chiesa di Roma in occasione delle rispettive feste patronali o altri eventi particolarmente importanti. Per un Pontefice neo-eletto è diventata un’abitudine pregna di significato quella di recarsi, poco dopo l’inizio del suo pontificato, al Fanar di Costantinopoli per rendere visita al Patriarca ecumenico. Ed è stato un bel segno di amicizia matura il fatto che il Patriarca ecumenico Bartolomeo I sia venuto a Roma per la cerimonia di insediamento di Papa Francesco, gesto ancora più apprezzabile perché compiuto per la prima volta nella storia delle relazioni ecumeniche tra Roma e Costantinopoli.

Il dialogo della carità deve essere proseguito e approfondito, oggi e nel futuro, anche perché nel corso della storia diverse spiritualità in Oriente e in Occidente hanno causato un progressivo allontanamento tra le Chiese e hanno largamente contribuito alla successiva rottura. Il cardinale Walter Kasper ha riassunto questo processo affermando in maniera concisa e incisiva: «I cristiani non si sono allontanati principalmente a causa delle loro dispute e delle loro differenti formulazioni dottrinali, ma si sono estraniati gli uni dagli altri per il loro diverso modo di vivere» (W. Kardinal Kasper, Wege der Einheit. Perspektiven für die Ökumene, Freiburg i. Br. 2005, 208). Questo sviluppo si spiega in gran parte nel fatto che nel mondo cristiano occidentale e orientale il Vangelo di Gesù Cristo è stato ricevuto in modo diverso fin dall’inizio ed è stato vissuto e trasmesso in diverse tradizioni e forme culturali. Nonostante queste differenze, il mondo cristiano del primo millennio in Oriente e in Occidente viveva all’interno di un’unica Chiesa. Tuttavia, i cristiani si allontanarono progressivamente gli uni dagli altri e iniziarono a comprendersi sempre meno, tanto che, come ha sottolineato eloquentemente Yves Congar (Vgl. Y. Congar, Zerstrittene Christenheit. Wo trennten sich Ost und West, Wien 1959), possiamo ravvisare in questo processo di reciproco estraniamento una delle cause principale dello scisma che si produsse in seguito.

Alla luce di questi sviluppi storici dobbiamo chiederci se si possa davvero parlare di divisione nella Chiesa tra Oriente e Occidente. La cosiddetta “divisione” è solitamente associata all’anno 1054, quando furono pronunciate le scomuniche tra Costantinopoli e Roma. Tuttavia, questa è una data più simbolica che storica, tanto più che non ci fu uno scisma nel vero senso della parola tra Oriente e Occidente nella Chiesa, e non ebbe luogo alcuna reciproca condanna formale né nel 1054 né in un’altra data. Il teologo ortodosso Grigorius Larentzakis ha giustamente riassunto questo fatto importante nella breve formula: «Nessuno scisma, eppure separati» (G. Larentzakis, Kein Schisma, trotzdem getrennt, in: «Die Tagespost» vom 27. Juni 2021). Non si dovrebbe quindi parlare di scisma, ma di crescente estraniamento nella Chiesa tra Oriente e Occidente. Tale allontanamento, che ha portato a incomprensioni e polemiche nel corso della storia, può essere superato solo con pazienza e, soprattutto, con carità, cercando di andare con sincerità gli uni incontro agli altri.

Il dialogo della carità ha permesso di riscoprire tra cattolici e ortodossi quella “fraternità” che Papa Giovanni Paolo II considerava uno dei frutti più importanti dell’impegno ecumenico (Giovanni Paolo ii, Ut unum sint, n. 41-42). Il dialogo della carità contribuisce innanzitutto alla riconciliazione tra le Chiese, che si esprime concretamente nella richiesta di perdono per i peccati commessi nel passato. Tale richiesta di perdono è particolarmente urgente in riferimento alla Quarta crociata del 1204 che, per motivi comprensibili, rimane ancora oggi una ferita aperta per molti cristiani ortodossi. Questa crociata fu inizialmente lanciata con un obiettivo positivo. Tuttavia, per ragioni politiche, Costantinopoli fu presa e saccheggiata dai marinai veneziani, nonostante Papa Innocenzo III avesse severamente vietato la guerra contro i cristiani: un avvertimento che, alla luce della guerra in Ucraina, assume una rinnovata attualità.

Il dialogo della verità alla ricerca della fede comune

Nei processi storici di allontanamento reciproco sono comunque entrate in gioco anche serie questioni teologiche. Da un lato, dunque, il dialogo della carità esige il dialogo della verità, ovvero la seria elaborazione teologica delle differenze teologiche che sono tuttora fonte di divisione, al fine di rendere possibile la comunione ecclesiale ed eucaristica. Dall’altro, il dialogo della carità costituisce il presupposto e l’habitat in cui può fiorire il dialogo della verità. I due dialoghi sono inscindibilmente legati, come lo sono la carità e la verità. I dialoghi ecumenici conducono verso il futuro solo se accompagnati dall’amore per la verità della fede e non semplicemente da interessi politici ecclesiali. Il nucleo più profondo di ogni sforzo ecumenico risiede nel riconoscimento e nell’approfondimento della fede apostolica, che viene trasmessa e affidata a ogni nuovo membro del Corpo di Cristo con il battesimo.

L’inizio del dialogo teologico della verità fu annunciato con una dichiarazione congiunta in occasione della prima visita di Papa Giovanni Paolo II al Patriarca ecumenico Dimitrios I per la festa di Sant’Andrea a Costantinopoli nel 1979 (La Dichiarazione, redatta in greco e in francese, fu pubblicata ne «L’Osservatore Romano» del 1 dicembre 1979). Il dialogo teologico può partire dalla constatazione incoraggiante che la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa hanno un’ampia base comune di convinzioni di fede. Per tale motivo, il dialogo ecumenico ho potuto concentrarsi, in un primo tempo, sul consolidamento del comune fondamento della fede. Questa ampia base comune è dovuta al fatto che, tra tutte le Chiese e le comunità ecclesiali cristiane, cattolici e ortodossi sono i più vicini tra loro. Essi hanno infatti conservato la stessa antica struttura ecclesiale, ovvero la struttura di fondo sacramentale-eucaristica ed episcopale della Chiesa, nel senso che in entrambe le Chiese l’unità nell’eucaristia e il ministero episcopale sono visti come costitutivi dell’essere Chiesa.


In questo contesto, la Chiesa cattolica, già con il Concilio Vaticano II , ha espresso un particolare apprezzamento per le Chiese d’Oriente, considerandole parte di una comunione fondamentale «tra Chiese locali come Chiese sorelle» (Cfr. Unitatis redintegratio, n. 14.) perché esse prevedono il ministero episcopale nella successione apostolica e tutti i validi sacramenti, tra cui in particolare l’Eucaristia, disponendo così di tutti gli elementi ecclesiali essenziali che le costituiscono come Chiese particolari. E riconoscendo che le Chiese d’Oriente «quantunque separate hanno veri sacramenti», la Chiesa cattolica ritiene anche che «una certa communicatio in sacris, presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo è possibile ma anche consigliabile» (Unitatis redintegratio, n. 15).

Ecclesiologia eucaristica: convergenze e divergenze

La questione cruciale che deve essere ulteriormente discussa nel dialogo ecumenico per poter ristabilire la comunione ecclesiale è la diversa comprensione del ministero del Vescovo di Roma. Ma anche per tale questione si può partire da una base comune. Di fatti, anche l’ortodossia considera la Chiesa del Vescovo di Roma al primo posto nella taxis delle varie sedi, come aveva già stabilito il Concilio di Nicea. Tuttavia, mentre l’ortodossia riconoscerebbe il Papa come “primo tra uguali” se fosse ripristinata l’unità, la formula fondamentale dal punto di vista cattolico va oltre, affermando: «Il Papa è primo e ha anche funzioni e compiti specifici» (Benedetto xvi, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Città del Vaticano, 2010, p. 132). Se osserviamo questa differenza più da vicino, ci accorgiamo che dietro la questione del ministero petrino si cela anche una differenza nell’ecclesiologia, in quanto nella struttura fondamentale della Chiesa antica che ortodossi e cattolici hanno preservato la questione del ministero del Papa rappresenta quell’elemento che viene percepito ancora come controverso. Eppure, anche e soprattutto nella questione ecclesiologica possiamo trovare un fondamento ampiamente comune, più precisamente nello sviluppo ulteriore di un’ecclesiologia eucaristica che fu promossa principalmente dai teologi russi in esilio a Parigi dopo la prima guerra mondiale e rivitalizzata dalla Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II .

Nella teologia cattolica ciò è dimostrato dal fatto che, in controtendenza con un’ecclesiologia universalista unilaterale diffusa nel passato, il Concilio ha riscoperto le “Chiese” al plurale, rivalorizzando dal punto di vista teologico le Chiese locali, ciascuna delle quali è pienamente Chiesa, anche se non è la totalità della Chiesa: «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento» (Lumen gentium, n. 26). La Chiesa cattolica vive quindi nell’interrelazione tra la pluralità delle Chiese locali e l’unità della Chiesa universale. Nell’interpretazione cattolica, la dimensione universale non è affatto in contrapposizione con l’ecclesiologia eucaristica. La Chiesa cattolica intende infatti il primato del Vescovo di Roma né esclusivamente né primariamente come un elemento giuridico e meramente esterno all’ecclesiologia eucaristica, ma piuttosto come una realtà in essa radicata. L’unità della Chiesa risiede profondamente nel fatto che essa vive dell’unica Eucaristia. Anche il primato del Vescovo di Roma deve essere compreso in riferimento a quella rete di comunità eucaristiche che è la Chiesa, come ha osservato in maniera eloquente monsignor Bruno Forte: «Il primato nell’eucaristia» (B. Forte, Il primato nell’eucaristia. Considerazioni ecumeniche intorno al ministero petrino nella Chiesa, in: Asprenas 23, 1976, pp. 391-410). Pertanto la missione del Vescovo di Roma che, secondo le parole di sant’Ignazio di Antiochia, ha il «primato nella carità», è quella di unire nell’Eucaristia tutte le Chiese locali presenti nel mondo nell’unica Chiesa universale. Il primato del Vescovo di Roma è un primato di carità, che mira a quell’unità della Chiesa che consente e preserva la comunione eucaristica e impedisce, in maniera credibile ed efficace, che un altare si erga contro un altro altare.

Diversamente, l’ecclesiologia eucaristica nel mondo ortodosso è legata a un’ecclesiologia della Chiesa locale molto forte. Per Chiesa si intende la comunità di fede che, riunita intorno al suo vescovo, celebra con lui l’Eucaristia. Ecco perché ogni comunità eucaristica è pienamente Chiesa. Sebbene l’unità orizzontale delle Chiese locali tra loro rappresenti pienezza e bellezza, in ultima analisi essa non è costitutiva della Chiesa. Lo stesso vale a livello regionale, dove, secondo il principio di autonomia e autocefalia, le Chiese sono indipendenti; e poiché esse sono strettamente legate alla loro rispettiva nazione, esistono come Chiese nazionali. Questa è certamente la loro forza, perché sono inculturate nelle società in cui vivono i credenti. Il rischio che però corrono le Chiese nazionali è quello di essere soggette non di rado a forti tendenze nazionaliste. Tali tendenze sono dovute pure al fatto che l’ortodossia — anche a differenza della Chiesa cattolica — non riconosce una separazione tra Chiesa e Stato ma piuttosto vede tra loro una “sinfonia”. Ne consegue che la dimensione universale della Chiesa scivola in secondo piano. Tuttavia, se essa non viene valorizzata, è difficile giungere a un concetto comune di ministero di unità anche a livello universale.

Riconciliazione ecumenica tra sinodalità e primato

Ciò solleva l’importante questione di come si possa raggiungere una maggiore convergenza teologica nell’interpretazione del concetto di Chiesa tra cattolici e ortodossi. Inutile dire che non può trattarsi di un compromesso basato sul minimo comune denominatore. Piuttosto, i punti di forza di entrambe le comunità ecclesiali devono essere fatti dialogare tra loro. In questo senso, il gruppo di lavoro ortodosso-cattolico Sant’Ireneo, nel suo documento di studio intitolato Al servizio della comunità, ha fornito il seguente orientamento: «In particolare, le Chiese devono adoperarsi affinché venga raggiunto un migliore equilibrio tra sinodalità e primato a tutti i livelli della vita ecclesiale, attraverso un rafforzamento delle strutture sinodali nella Chiesa cattolica e attraverso l’accettazione da parte della Chiesa ortodossa di un certo primato all’interno della comunione mondiale delle Chiese» (Im Dienst an der Gemeinschaft. Das Verhältnis von Primat und Synodalität neu denken. Eine Studie des Gemeinsamen orthodox-katholischen Arbeitskreises St. Irenäus, Paderborn, 2018, 94).

Per poter progredire in questa direzione nel dialogo ecumenico è quindi necessaria la disponibilità ad apprendere da parte di entrambe le Chiese. Da un lato, la Chiesa cattolica deve ammettere di non aver ancora sviluppato, nella sua vita e nelle sue strutture ecclesiali, quel grado di sinodalità che sarebbe teologicamente possibile e necessario, e che la valorizzazione e il rafforzamento della sinodalità costituisce anche un importante contributo al riconoscimento ecumenico del primato del Vescovo di Roma. Al riguardo, Papa Francesco è convinto che gli sforzi teologici e pastorali intrapresi per edificare una Chiesa sinodale abbiano anche un forte impatto sull’ecumenismo e che in particolare la questione del primato petrino possa essere più adeguatamente chiarita all’interno di una Chiesa sinodale: «Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo — come Successore dell’apostolo Pietro — a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese» (Francesco, Discorso per la commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015).

Dall’altro lato, ci auguriamo che la Chiesa ortodossa sia disposta a ripensare il principio di autocefalia in modo tale da permettere una maggiore apertura alla dimensione universale della Chiesa e, di conseguenza, poter riconoscere la necessità teologica di un primato anche a livello universale. In questo senso, soprattutto il teologo e metropolita ortodosso Ioannis Zizioulas ha più volte sottolineato che un ministero di unità a livello universale della Chiesa non è in alcun modo contrario a un’ecclesiologia eucaristica, ma è compatibile con essa.

A un migliore equilibrio tra sinodalità e primato ha puntato anche la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. In particolare, durante l’Assemblea plenaria di Ravenna del 2007, la Commissione ha adottato un importante documento, nel quale si afferma che sinodalità e primato sono interdipendenti e che questa correlazione si realizza a tutti i livelli della Chiesa, locale, regionale e universale. Il fatto che cattolici e ortodossi abbiano potuto dichiarare insieme per la prima volta che la Chiesa necessita di un Protos anche a livello universale rappresenta senz’altro una pietra miliare sul cammino ecumenico. Nel frattempo, la Commissione ha ampliato e approfondito questa visione fondamentale con due ulteriori documenti su sinodalità e primato nel primo millennio (a Chieti nel 2016) e su sinodalità e primato nel secondo millennio e oggi (ad Alessandria d’Egitto nel 2023).

Questi sforzi ecumenici hanno come obiettivo quello di ripristinare la comunione ecclesiale in modo che la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica non continuino a vivere come due Chiese separate ma vivano come un’unica Chiesa in Oriente e in Occidente, rispecchiando così l’unità del Corpo di Cristo. Ma l’essere Corpo della Chiesa tende ad andare oltre se stesso, verso la comunione vincolante nel Corpo eucaristico del Signore, motivo per cui la ripristinata unità della Chiesa avrà come risultato la ricomposizione della comunione eucaristica. Il Patriarca ecumenico Atenagora espresse questa visione con parole incisive già nel 1968: «È giunta l’ora del coraggio cristiano. Ci amiamo gli uni gli altri; professiamo la stessa fede comune; incamminiamoci insieme verso la gloria del sacro Altare comune, per fare la volontà del Signore, affinché la Chiesa risplenda, il mondo creda e la pace di Dio venga su tutti» (Télégramme du patriarche Athénagoras au pape Paul VI , à l’occasion de l’anniversaire de la levée des anathèmes le 7 décembre 1969, in: Tomos Agapis. Vatican-Phanar, 1958-1970, Rome – Istanbul 1971, Nr. 277.). In questa visione si realizza il senso profondo di quel bacio fraterno che fu scambiato a Gerusalemme sessant’anni fa e che ancora oggi unisce cattolici e ortodossi in un impegno comune.

di cardinale Kurt Koch – Cardinale presidente del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani